Da sempre attratto dalla sacralità e dal misticismo che da oltre mille anni emanano da questo luogo di preghiera e meditazione, roccaforte della pura tradizione ortodossa e cuore pulsante del suo esicasmo*, dove il tempo sembra essersi fermato tra rocce, strade sterrate, preziose icone, antichi manoscritti e barbuti volti di monaci, sono ouranopoli-pilgrims-bureaufinalmente riuscito a ritagliare un apposito spazio all’interno di un tour in Grecia e Macedonia organizzando una visita ad Ághion Óros alla guida d’un piccolo gruppo di interessati escursionisti. Ma ecco che, sin dall’arrivo mattutino a Ouranopoli, tappa d’obbligo per farsi traghettare verso l’approdo athonita, comincio ad avvertire uno strisciante senso di spaesamento, a causa dello stridente contrasto tra realtà supposta e quella vera, che mi farà compagnia per l’intero soggiorno. Infatti, una volta sbrigate le semplici formalità (riconoscimento e consegna del diamonitirion), vengo mio malgrado catapultato nel mezzo d’una massa informe e gesticolante di pellegrini-turisti che si accalcano davanti allo sgangherato sportello della compagnia di navigazione per tentare di accaparrarsi un biglietto. Tra questi si evidenziano alcuni monaci, barba e mani ben curate, che parlottano omonaco-in-taxi-boat smanettano con uno smartphone di ultima generazione (diabolica tentazione o strumento utile per questi anacoreti del XXI secolo?) mentre poco più in là altri si mettono frettolosamente alla guida d’un piccolo motoscafo oppure s’imbarcano senza indugi su un comodo e veloce taxi-boat: benché ostentando l’aplomb di un’impeccabile veste talare rigorosamente nera con il kamlavkion a falda appiattita cui si accompagnano, unici segni di distinzione, scarponcini e pesante zaino a tracolla.

Ebbene, nonostante qualche imprevisto (i traghetti del giorno sono tutti pieni), riusciamo comunque ad assicurarci un posto su una corsa straordinaria approdando al porticciolo di Dafni con una sola ora di ritardo rispetto alla tabella di marcia prefissata. Qui è pronto un bus che, in poco più di mezz’ora su strada ora sterrata ora pavimentata karyes-storese ora asfaltata, ci porterà a Karyes, la capitale della Repubblica. La prima cosa che noto appena sceso sono i bar, le taverne ed i negozi (taluni con velleità di minimarket) che accolgono – e sopravvivono con – i numerosi pellegrini-turisti (320 mila lo scorso anno! Come dire, un’invasione di brulicanti cavallette che consumano, inquinano e sporcano il fragile eco-sistema) e subito dopo alcuni suv parcheggiati qui e là che, come paventato, appartengono agli stessi monaci. Mah. Ad ogni modo, dopo esserci rifocillati alla bell’e meglio, ci mettiamo subito in cammino per il primo dei monasteri, quello di Iviron, che ci ospiterà per la notte. Il percorso è piuttosto mal segnalato e, oltre alle mappe, bisogna fare leva non solo sul senso di orientamento proprio del vero trekker ma anche sul provvidenziale incontro con un monaco russo spuntato quasi dal nulla (non siamo soli!) che ci invita perentoriamente a salire sul suo pick-up per accompagnarci alla vicina dimora, non certo il misero e spoglio romitorio che ci si sarebbe aspettato ma piuttosto una moderna e confortevole villetta provvista di pannelli solari e antenna parabolica, e quindi indicarci l’imbocco dell’avito sentiero impropriamente nascosto dietro la stessa.

All’arrivo, nel tardo pomeriggio, è da poco terminato il vespro al katholikòn ed è quasi ora di cena. Pertanto l’archontaris suggerisce di accodarci agli altri pellegrini-turisti ospiti che si avviano sicuri verso il dirimpettaio trapeza dove verrà consumato il pasto secondo le (anacronistiche) rigide regole dell’Athos: in piedi davanti ai iviron-trapezalunghi tavoli apparecchiati, ancorché separati dai monaci, si attende l’ingresso dell’igumeno, preceduto da un sonoro scampanellìo, prima di accomodarsi sulle panche e cercare di ingurgitare quel che si può (si tratta di un menù per lo più vegetariano, fatto di pasta o riso con legumi e verdure, più pomodori, olive, frutta e vino rosso, che viene servito sia a mattina che a sera) nei 15 minuti in cui l’anagnòstis, recto tono, legge unanagnosticos passo dai libri sacri. Alla fine della lettura, un breve tintinnìo invita ad alzarsi e, subito dopo, a volgere sommessamente l’attenzione all’uscita dell’igumeno, prima di accingersi al personale commiato. Dopodiché ci viene assegnato un dormitorio (sei letti, provvisti di lenzuola, coperta, asciugamani e ciabatte) nell’apposita foresteria con camere e sala bagni in comune. Vale la pena sottolinearlo: per quanto “spartano” è tutto però rigorosamente pulito, soprattutto i bagni dove, a parte il bandito specchio (considerato un’inutile diavoleria) e l’acqua fredda, non manca il sapone, l’asciugatoio e la carta igienica.

I giorni che verranno, fatti salvi i percorsi più o meno impegnativi che collegano i monasteri prescelti, ricalcanosimonopetra_simantron pressoché tutti il solito trantran: prima colazione tra le 7:00 e le 9:00 (a seconda del luogo), piccolo ristoro d’accoglienza a metà giornata (un dolcetto, loukoumi, accompagnato da un bicchierino di tsìpouro o raki, specie di aperitivi alcolici ottenuti da vinacce, e da una caraffa di acqua fresca) e cena tra le 17:00 e le 18:00. Non trascurando che, tanto le funzioni religiose (l’orthros, prima dell’alba, e l’esperinos, nel tardo pomeriggio) quanto i pasti a seguire, vengono sempre scanditi dal tradizionale suono del talanton (di legno) e del simantron (di ferro). Al tramonto che, nella vigente ora bizantina, coincide con la mezzanotte, si provvede alla chiusura il portone principale che precede di qualche ora la ritirata in camera per il riposo notturno.

Questi, e solo questi, sono gli unici atti rituali mutuati dal lontano medio evo, giacché per il resto la vita dei monaci è tutt’altra cosa rispetto ad appena venti anni fa, quando mancava ancora l’energia elettrica. I monasteri monaco-in-pick-updi oggi, katholikòn a parte (l’unico luogo rimasto pressoché immutato), sono adeguatamente restaurati o in corso di restauro (beninteso, con i fondi dell’UE), peraltro non disdegnando allestimenti interni in ceramica decorata o legno pregiato e, tantomeno, arredamenti moderni e confortevoli che poco hanno a che fare con le scomodissime sedute d’antan. E poi, intorno ad ogni monastero, è un fiorire di case in muratura pluriaccessoriate e con giardino privato, appannaggio di chissà quale specie/gerarchia di monaci: probabilmente gli stessi che si possono permettere un fiammante fuoristrada e, di tanto in tanto, di viaggiare liberamente nel continente non certo per promuovere la religiosità del Sacro Monte ma per vendere vini e altri prodotti o, addirittura, pubblicare libri di cucina, come quello del monaco Epifanios (rampante quarantenne, cuoco e viticoltore). Insomma, per quanto mi dolga ammetterlo, di “quel” Monte Athos è rimasto ben poco e forse per ritrovare un po’ di misticismo bisogna spingersi fin sulla sua sacra cima, sperando che lassù non sia ancora arrivato il wi-fi. Concludo con un’immagine che m’è rimasta impressa: quasi una raffigurazione emblematica dell’odiernasimonos-petras-2 realtà athonita. E’ quella di un canuto anacoreta (come si evince dalla tonaca bianca, artatamente sudicia e lacerata) che, sulla coperta del grande traghetto che ci riporta a Ouranopoli, espone in vendita una grande varietà di souvenirs di scadente fattura (collanine, rosari, anelli, ecc.) ai tanti pellegrini-turisti. E amen.

Odisseo  

*L’esicasmo (dal greco hesychasmos, calma, pace, tranquillità, assenza di preoccupazione) è una dottrina/pratica ascetica diffusa tra i monaci ortodossi fin dai tempi dei Padri del deserto (IV secolo). Scopo dell’esicasmo è la ricerca della pace interiore, in unione con Dio e in armonia con il creato. Gli esicasti praticano la cosiddetta “preghiera di Gesù o del cuore”, la cui descrizione è contenuta in un testo anonimo (probabilmente opera di un monaco dell’Athos) che raccomanda di rifugiarsi in un luogo solitario e tranquillo e di concentrarsi, senza lasciarsi distrarre da pensieri vani.

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